Fin dalla definizione di Turing, che definisce l’intelligenza artificiale come simulazione indistinguibile dell’uomo, essa si caratterizza come una finzione. L’arte stessa, peraltro, si basa sulla finzione, come descrive bene il racconto su Zeusi e Parrasio di Plinio: il pittore Parrasio vince la competizione con Zeusi perché riesce a ingannare l’uomo simulando un velo sul suo dipinto. Siamo di fronte ad un deepfake ante litteram. Il cosiddetto trompe l’oeil, letteralmente “inganna l’occhio” è un tratto dominante della pittura, che genera l’illusione del reale dall’arte romana fino ad oggi. L’AI genera mondi sintetici che per loro natura sono artificiali, non reali. Essa va identificata come finzione, il che la distingue dalla fotografia, utilizzata da oltre un secolo come prova dell’esistente. Un sistema AI non potrà mai generare un’immagine reale di una battaglia, può farlo invece una fotografia. A differenza delle “tecnologie del reale” (fotografia, video, raggi X…), l’AI e il metaverso propongono “fake people in fake worlds”. Questo solleva questioni etiche e culturali, ad esempio, nel giornalismo, mentre nell’arte – che non pretende aderenza al reale – questa “falsificazione” non è problematica, e può essere praticata con la massima libertà.